“Considerazioni attuali sulla guerra e la morte" di Sigmund Freud
di Adolfo Santoro - sabato 11 novembre 2023 ore 08:00
Il 28 giugno 1914 l’Impero Austro-ungarico, a seguito dell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, dichiarò guerra alla Serbia, anche se le potenze occidentali (anzi tutto Francia ed Inghilterra) si opposero a questa punizione esemplare. Freud era impegnato in altre faccende: nel luglio 1914 in una lettera a Karl Abraham scriveva: “Finalmente ci siamo sbarazzati di Jung, quel pazzo irragionevole e i suoi accoliti”. In una lettera successiva, sempre del luglio 1914 e sempre indirizzata ad Abraham, scriveva che, per la prima volta, dopo trent’anni, si sentiva austriaco. Freud era al tempo un conservatore ed aspirante nazionalista; aggiungeva che l’unico rammarico che aveva era che l’Inghilterra, di cui ammirava la cultura e la scienza, avesse scelto di stare dalla parte sbagliata del conflitto internazionale. In una lettera a Ferenczi dell’agosto del 1914 scriveva: “Tutta la mia libido si riversa sugli austro-ungarici”. Moltissimi giovani, tra cui Ernst Jünger, Franz Rosenzweig, molti psicoanalisti e tre figli maschi di Freud (Oliver, Martin ed Ernst), provarono l’ebbrezza della guerra e si arruolarono volontari per andare a combattere al fronte: il bagno di sangue veniva percepito come l’occasione per una rinascita collettiva.
Ma l’entusiasmo della guerra dura solo pochi mesi. E così fu anche per Freud: aveva immaginato una rapida conclusione del conflitto, ma, alla fine del 1914, gli fu chiaro che alla guerra d’invasione succedeva la guerra, lunga e cruenta, di posizione e di trincea. In una lettera a Ferenczi del Novembre 1914 scriveva: “La voce della psicoanalisi nel mondo viene coperta dal tuono dei cannoni”. In un’altra lettera del dicembre 1914 all’amico psichiatra olandese Frederik van Eeden, Freud constatava che “gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi, ma continuano a vivere, seppure rimossi, nell’inconscio di ogni singolo individuo … aspettando l’occasione di potersi riattivare … il nostro intelletto è qualcosa di fragile e dipendente, gingillo e strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti, … siamo costretti ad agire ora con intelligenza ora con stoltezza a seconda del volere dei nostri intimi atteggiamenti e delle nostre intime resistenze ... Ebbene, guardi cosa sta accadendo in questa guerra, guardi le crudeltà e le ingiustizie di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui si atteggiano di fronte alle proprie menzogne e iniquità a petto di quelle dei nemici; e guardi infine come tutti hanno perso la capacità di giudicare con rettitudine”.
Nella primavera del 1915 pubblicò in “Imago” le “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, che segnò il cambiamento dell’impianto della teoria psicoanalitica, fino ad allora elaborato. Alla fine della guerra Freud era divenuto un pacifista: la guerra non aveva fatto che mettere in evidenza quello che la psicoanalisi aveva già teorizzato sull’aggressività umana. I cinque anni di guerra avevano causato circa 10 milioni di vittime, anche grazie alla “scienza” e alla tecnologia, che avevano prodotto automobili, gas tossici, lanciafiamme, sommergibili, bombardamenti sui civili. L’armistizio del novembre 1918 portò un sollievo, ma anche l’illusione che la guerra fosse finita. Tutto non era più quello di prima: erano crollati i miti della razionalità umana, propri dell’illuminismo e del positivismo, i miti dei valori dell’Occidente e del progresso scientifico, tecnico, economico, morale e politico. Le conseguenze del potenziamento degli armamenti e delle politiche di disuguaglianza e sopraffazione si sono svelate sempre di più fino ad oggi: la promessa del progresso e dell’”uomo nuovo” di tutte le ideologie è diventata l’orrenda spettacolarizzazione dell’atroce distruzione della Terra e degli uomini che ci vivono.
“Che animale è l’uomo?” si domandava Nietzsche. La risposta di Freud sembra essere: “un animale che proclama di essere umano, ma che trasforma la vita in morte”. Questa possibile risposta era presente già nel Freud del 1915 e fu successivamente approfondita: nel 1920, in seguito all’analisi delle nevrosi traumatiche di guerra, scopriva la pulsione di morte in “Al di là del principio del piacere”; in “Psicologia delle masse e analisi dell’io” del 1921 analizzava la pulsione gregaria; in “Il disagio della civiltà” del 1930 completava la sua analisi su guerra e pulsione di morte; nelle lettere della sua corrispondenza con Albert Einstein del 1932 descriveva il suo senso d’impotenza operativa a favore della pace.
Le “Considerazioni…” del 1915 si articolano in due parti: 1) Guerra e disinganno, 2) Il nostro atteggiamento nei confronti della morte.
Ecco qualche passo tragicamente attuale della prima parte “Guerra e disinganno”:
“Presi dal vortice di questi tempi di guerra, insufficientemente informati, non abbastanza distaccati per dare un giudizio sui grandi avvenimenti che si sono già verificati o stanno per verificarsi, senza possibilità di sfuggire all'avvenire che ci si prepara, noi non siamo in grado di comprendere l’esatto significato delle impressioni che ci assalgono, di renderci conto del valore dei giudizi che formuliamo. Ci sembra che mai un avvenimento abbia distrutto un patrimonio tanto prezioso, comune all’umanità, abbia provocato un tale perturbamento nelle intelligenze più lucide, abbia così profondamente svilito quanto vi era di più alto. Perfino la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; gli scienziati, esasperati, le forniscono armi per poter contribuire, da parte loro, ad abbattere il nemico. L’antropologo cerca di dimostrare che l'avversario appartiene ad una razza inferiore e degenerata; lo psichiatra scopre nello stesso perturbamenti psichici ed intellettuali. Ma probabilmente noi subiamo con troppa intensità gli effetti di quanto di male vi è nel nostro tempo, il che ci priva di ogni diritto di stabilire un confronto con altre epoche che non abbiamo vissute e la cui malvagità non ci ha toccati… Tra i fattori che si possono considerare come la causa della miseria psichica degli uomini delle retrovie e contro i quali è difficile combattere, ve ne sono due che io mi propongo di mettere in evidenza e di esaminare qui: il disinganno provocato dalla guerra ed il nuovo atteggiamento che, come tutte le altre guerre, questa c’impone nei confronti della morte… Ma, si pensava, i grandi popoli devono aver acquisito un sufficiente sentimento di quanto li unisce ed abbastanza tolleranza per quanto li divide, per non confondere, come si faceva ancora nell’antichità classica, lo straniero con il «nemico». … Non è il caso di dire che bisognava avere tutti i riguardi per la popolazione civile, per le donne, che non usano le armi, per i bambini che, una volta raggiunta l'età adulta, dovranno divenire gli amici ed i collaboratori dei loro coetanei del campo nemico. Aggiungiamo ancora che dovevano essere mantenute tutte le iniziative e le istituzioni internazionali nelle quali, in tempo di pace, si era espressa la comunanza della civiltà. … Una simile guerra sarebbe stata ugualmente terribile ed intollerabile, ma non avrebbe interrotto l'evoluzione dei rapporti morali tra questi grandi individui dell'umanità che sono popoli e gli Stati.
Poi, la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, ed stata per noi una fonte di... disinganno. Non solo essa è più cruenta e più distruttiva di tutte le guerre del passato, per i terribili perfezionamenti apportati alle armi di difesa e d'attacco, ma è altrettanto, se non più, crudele, accanita, spietata che qualunque di esse. Essa non tiene alcun conto delle limitazioni alle quali ci si attiene in tempo di pace e che formano ciò che chiamiamo il diritto delle genti, non riconosce i riguardi dovuti al ferito ed al medico, non fa alcuna distinzione tra combattenti e popolazione civile. Calpesta tutto ciò che trova sul suo cammino, e questo con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esserci avvenire né pace tra gli uomini. Distrugge tutti i legami comunitari che ancora uniscono tra di loro i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé rancori che renderanno impossibile, per molti anni, la ricostituzione di questi legami… Nel corso di questa guerra, ogni membro di una nazione può constatare ciò di cui aveva già una vaga intuizione in tempo di pace, cioè che, se lo Stato vieta all'individuo la pratica dell'offesa, ciò non avviene perché esso voglia eliminarla, ma perché vuole monopolizzarla, così come monopolizza il sale ed il tabacco. Lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l'individuo. Esso ha fatto ricorso, nei confronti del nemico, non solo a quel tanto di astuzia permessa, ma anche alla menzogna cosciente e voluta, e questo in una misura che va al di là di tutto ciò che si era visto nelle guerre precedenti. Lo Stato impone ai cittadini il massimo di obbedienza e di sacrificio, ma li tratta da sottomessi, nascondendo loro la verità e sottomettendo tutte le comunicazioni e tutti i modi di espressione delle opinioni ad una censura che rende la gente, già intellettualmente depressa, incapace di resistere ad una situazione sfavorevole o ad una cattiva notizia. Si distacca da tutti i trattati e da tutte le convenzioni che lo legano agli altri Stati, ammette senza timore la propria rapacità e la propria sete di potenza, che l'individuo è costretto ad approvare ed a sanzionare per patriottismo. Non ci si venga a dire che lo Stato non può evitare di ricorrere al sopruso, perché, se vi rinunciasse, si metterebbe in posizione d'inferiorità. … Così, di fronte alla rovina della sua patria, alla devastazione dei beni comuni, all'umiliazione dei suoi concittadini rivolti gli uni contro gli altri, il cittadino dell'universo civile di cui abbiamo prima parlato si sente, improvvisamente, un estraneo nel mondo che lo circonda. …
Nella seconda parte, “Il nostro atteggiamento nei confronti della morte”, Freud mostra di comprendere bene che il conflitto esteriore della guerra sia un’esternazione del conflitto interiore, basato sulla rimozione dell’esistenza della morte e, quindi, della pace:
“(La guerra) porta via le stratificazioni imposte dalla civilizzazione e lascia sopravvivere in noi solo l'uomo primitivo. Essa ci impone l'atteggiamento degli eroi che non credono alla possibilità della propria morte; essa ci indica negli estranei dei nemici che bisogna eliminare o la cui morte dobbiamo augurarci; essa ci raccomanda di restare calmi di fronte alla morte di una persona cara. Ma le guerre stesse non si lasciano eliminare. Finché tra le condizioni d'esistenza dei popoli vi saranno differenze così nette, finché essi proveranno reciprocamente un'avversione tanto profonda, vi saranno sempre delle guerre. In simili condizioni, s'impone questa domanda: dato che le guerre sono pressappoco inevitabili, non faremmo bene a piegarci di fronte a questa situazione, ad adattarci ad essa? Non faremmo bene a convenire che, dal punto di vista psicologico, il nostro atteggiamento nei confronti della morte, quale deriva dalla nostra vita civilizzata, va oltre le nostre forze, e che per noi sarebbe meglio fare astrazione da questo atteggiamento e piegarci di fronte alla verità? Non faremmo bene ad assegnare alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, il posto che le si addice ed a prestare un'attenzione sempre maggiore al nostro atteggiamento inconscio nei confronti della morte, che invece siamo sempre occupati a reprimere con tanta accuratezza?
In questo modo non compiremmo un progresso, ma, sotto certi aspetti, un regresso. Rassegnandoci ad esso, tuttavia, avremmo il vantaggio di essere sinceri con noi stessi e di renderci nuovamente sopportabile la vita. In effetti, rendere la vita sopportabile è il primo dovere dell'essere vivente. L'illusione perde ogni importanza, quando è in opposizione con esso.
Ricordiamo il vecchio adagio: si vis pacem, para bellum: se vuoi il mantenimento della pace, sii sempre disposto alla guerra. Sarebbe ora di modificare questo adagio e di dire: si vis vitam, para mortem: se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte.”.
Adolfo Santoro